Negli ultimi mesi, a causa del covid-19, le unità di terapia intensiva sono state molto affollate: per fortuna molte persone, grazie alle cure ricevute, hanno potuto tornare dalle loro famiglie e quel periodo può essere messo alle spalle come un brutto ricordo (ammesso che vi sia un ricordo).
La permanenza in un’unità di terapia intensiva (UTI) è però anche una tra le situazioni più stressanti dal punto di vista psicologico. Numerose ricerche infatti confermano elevati tassi di depressione, disturbo post-traumatico da stress (PTSD) e altri disturbi psicologici tra i pazienti che hanno trascorso diverso tempo in rianimazione.
Secondo alcuni vi è una relazione diretta tra il ricovero in terapia intensiva ed il successivo sviluppo di un disturbo psicologico, mentre altri evidenziano la complessa interazione tra il trauma di una malattia o di una lesione molto grave e gli interventi salvavita spesso somministrati in terapia intensiva. Tuttavia, la conclusione che la terapia intensiva sia un fattore causale indipendente negli esiti psicologici correlati al trauma al momento non ancora è stata dimostrata.
Alcune ricerche hanno investigato proprio sulla complessa questione se l’UTI conferisca il rischio di andare incontro ad un esito psicopatologico in modo indipendente dai gravi eventi sanitari che richiedono un trattamento in UTI.
Le stime della prevalenza di disturbo post-traumatico da stress (PTSD) dopo il trattamento in terapia intensiva variano notevolmente, con tassi che vanno dal 5% al 64%. Altri studi sugli effetti psicologici post-terapia intensiva includono depressione e ansia, delirio, disturbi del sonno, disturbi cognitivi, difficoltà relazionali e stati di disagio generalizzato.
Fattori specifici nelle unità di terapia intensiva
Alcuni fattori specifici relativi alle unità di terapia intensiva, che sono stati indagati per la loro potenziale associazione con esiti psicopatologici sono: il tempo trascorso in UTI, il tipo di pratica di sedazione (ad esempio benzodiazepine o propofol), il tipo di pratiche analgesiche (generalmente oppioidi nel caso della gestione del dolore), l’intubazione e reintubazione, la tracheostomia, l’inserimento del catetere arterioso polmonare (PAC) e l’uso di restrizioni fisiche durante il trattamento in terapia intensiva
Le pratiche di sedazione sono atti tipici della medicina in terapia intensiva e sono strettamente legate ai principi fondamentali di benessere del paziente e di riduzione dell’angoscia. In generale, si è sempre pensato che l’induzione medica degli stati amnesici fosse una pratica più umana che lasciare i pazienti abbastanza lucidi da permettere loro di avere ricordi del tempo trascorso in terapia intensiva. Naturalmente la ragione principale per la forte sedazione in terapia intensiva è sempre stata pragmatica: pazienti complessi dal punto di vista medico richiedono un’adeguata sedazione per consentire terapie mediche salvavita come, ad esempio, il posizionamento di tubi endotracheali, che facilitano la ventilazione polmonare. Dall’inizio alla metà degli anni novanta, tuttavia, i risultati empirici hanno iniziato a collegare l’eccessiva sedazione con esiti clinici avversi (ad esempio, è stato dimostrato che una sedazione più profonda prolunga il periodo di tempo in cui i pazienti devono essere ventilati), spingendo alla pubblicazione di linee guida sulla sedazione. Queste linee guida hanno cercato di incoraggiare l’idea di una sedazione “adeguata” piuttosto che di una sedazione profonda, e hanno sostenuto il bilanciamento dei benefici in terapia intensiva della sedazione e dell’analgesia (cioè la gestione dell’agitazione e del dolore) con i potenziali rischi per esiti avversi. Nonostante il panorama mutevole della teoria e della pratica della sedazione, i vari rischi medici e psicologici associati alla sedazione e alla somministrazione di analgesia in terapia intensiva continuano a essere problematici. Recentemente sono emerse strategie per mitigare il rischio psicopatologico correlato alla sedazione, comprese le tecniche quotidiane di interruzione della sedazione. Queste strategie di interruzione consistono essenzialmente nell’arrestare la sedazione o l’analgesia del paziente per un breve periodo ogni giorno, fino a quando il paziente riacquista la veglia o sperimenta una soglia di dolore tollerabile. Numerosi studi hanno dimostrato che le tecniche di interruzione hanno esiti positivi, anche in termini di precoce liberazione dalla ventilazione meccanica (MV) e di riduzione del rischio di disturbo post-traumatico da stress e altre psicopatologie.
Intubazione e ventilazione meccanica
La ventilazione meccanica (MV – facilitazione della respirazione umana da parte di un apparato meccanico), viene spesso raggiunta attraverso il tubo endotracheale (e talvolta mediante tracheostomia) ed è stata identificata come un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo della psicopatologia post-UTI. Sebbene le terapie discusse qui vengano spesso utilizzate insieme (ad esempio, la MV in genere richiede sedazione per essere tollerata dai pazienti), la MV è stata isolata come un unico fattore di rischio psicopatologico. In un campione di pazienti di terapia intensiva è stata dimostrata una correlazione diretta tra PTSD e numero di giorni trascorsi dai pazienti in MV. Tuttavia, i ricercatori non hanno trovato una relazione statisticamente significativa tra MV e pazienti che erano in grado di soddisfare pienamente i criteri clinici per la diagnosi di PTSD.
Allucinazioni, deliri e amnesie
Una percentuale significativa di pazienti in terapia intensiva riporta alcuni episodi allucinatori, costituiti da esperienze spaventose, psicotiche o incubi durante la terapia intensiva. I tassi di prevalenza di questo tipo di disturbi variano ampiamente, oscillando tra il 26% e il 73% sul totale dei disturbi psicopatologici registrati in terapia intensiva.
Sia l’ambiente fisico del reparto di terapia intensiva (con rumori, allarmi, segnali di emergenza, ecc.), sia la forte somministrazione di sedativi (specialmente nel caso delle benzodiazepine) sono stati proposti come fattori causali per allucinazioni e delusioni. Ad esempio, è stata trovata una relazione positiva tra sedazione e analgesia somministrata a un campione di pazienti con ventilazione meccanica, e la frequenza dei ricordi deliranti durante la terapia intensiva. I ricercatori hanno anche scoperto che i pazienti con presenza di ricordi deliranti erano a maggior rischio di sviluppare sintomi simili a quelli del PTSD. Ciò che forse è più sconcertante per i ricercatori che tentano di verificare se la terapia intensiva sia una situazione psicologicamente stressante è la rivelazione che molti individui che sono stati ricoverati in terapia intensiva non riportano praticamente alcun ricordo di essere mai stati in terapia intensiva! Due studi recenti hanno evidenziato stati amnesici per una quota che oscilla tra il 18% ed il 38% dei pazienti ricoverati in terapia intensiva. Un ulteriore studio che indaga l’amnesia in terapia intensiva come possibile fattore eziologico nel PTSD ha scoperto che gli stati amnesici durante erano predittivi di sintomatologia post-traumatica da stress. Tuttavia, ci sarebbe anche da verificare se la relazione tra amnesia e PTSD non possa essere dovuta alla gravità del trauma subito.
Tra una serie di fattori che non sono risultati predittivi della successiva psicopatologia tra i pazienti ricoverati in terapia intensiva, due variabili si distinguono come particolarmente rilevanti: la durata della terapia intensiva e la gravità della malattia.
In generale in letteratura si trova scarso supporto empirico all’idea che passare più tempo in una terapia intensiva possa far prevedere risultati psicopatologici peggiori. Per quanto riguarda la gravità della malattia invece, gli autori avanzano l’ipotesi che la mancanza di una relazione diretta tra questo fattor e il successivo sviluppo di un disturbo psicologico, sia dovuto a problemi di misurazione
Gli individui vivono sempre più a lungo dopo il trattamento in terapia intensiva e quindi l’impatto psicologico di una simile esperienza diventa importante da comprendere e degno di essere studiato e approfondito. Con l’aumentare della ricerca, l’applicazione di nuovi concetti applicati alle unità di terapia intensiva potrà portare ad una migliore comprensione di come le differenze individuali interagiscono con i fattori di trattamento e di quali situazioni e caratteristiche personali possano essere correlate ad un successivo sviluppo di un disturbo psicologico.
Per approfondire:
G.A. Bonanno, J.N. McGiffin, I.R. Galatzer-Levy – Is the Intensive Care Unit Traumatic? What We Know and Don’t Know About the Intensive Care Unit and Posttraumatic Stress Responses. – Rehabilitation Psychology. 2016, Vol. 61, No. 2, 120 –131