Quello di voler interrompere la psicoterapia è un pensiero frequente tra i pazienti, anche quando in realtà potrebbe non essere la cosa giusta da fare.
di Josh Gressel
Quando qualcuno dice di voler interrompere la psicoterapia, sarebbe bello poter rispondere: “Ci sono due errori che potrei fare adesso: il primo errore sarebbe cercare di convincerla a restare, quando in realtà ha fatto il lavoro che era venuto a fare, ed è ora che lei vada. Il secondo errore sarebbe quello di dire “Ok” e lasciarla andare quando invece dovrei cercare di farla rimanere in terapia, perché può trarre molto più beneficio restando che non interrompendola.“
Quindi quando è il caso di interrompere?
Per prima cosa, c’è un’ovvia considerazione da fare: si deve escludere che il terapeuta voglia che il paziente continui perché gli conviene economicamente, così come si deve escludere che il terapeuta abbia interesse a far interrompere la terapia perché in questo modo, ad esempio, si libererà un’ora per un nuovo paziente in lista d’attesa. Ovviamente si suppone che il terapeuta agisca in modo etico e corretto.
Quindi riflettiamo sulle motivazioni del paziente, per quelle del terapeuta si suppone vi sia stato un training altamente qualificato ed efficace tale da far sì che non entrino in conflitto con i bisogni del paziente.
In realtà non c’è una risposta predeterminata su quando sia il momento giusto per interrompere la terapia. Le motivazioni che più frequentemente i pazienti avanzano sono:
- Non si pensa di poter andare oltre con quel particolare terapeuta, per qualsiasi ragione, che va da come ci si trova col terapeuta al semplice fatto di sentire di aver fatto abbastanza strada insieme;
- Gli impegni personali sono tali da non permettere più di proseguire la psicoterapia;
- Sebbene non ci si senta cambiati profondamente e i sintomi non siano spariti, semplicemente si sente di non avere più la motivazione per andare avanti col lavoro psicoterapeutico in quella particolare fase della vita;
- Si è fatto abbastanza lavoro da aver interiorizzato sufficientemente il metodo terapeutico; in questo modo anche in assenza del terapeuta si è in grado di riflettere sui propri processi mentali in maniera tale da non rispondere in modo automatico in determinate situazioni.
E invece, quando sarebbe il momento di andare avanti e continuare con la terapia nonostante si avverta il desiderio di interrompere? Ancora una volta, ecco alcune possibili risposte tratte dalla pratica clinica, sebbene l’elenco non sia esaustivo:
- Il lavoro terapeutico sta mettendo il paziente di fronte a qualcosa che lo mette a disagio e abbandonare la terapia è un modo per evitare tale disagio. Non sempre il paziente ha piena consapevolezza di ciò mentre è convinto di avere ragioni diverse e “oggettive” che lo portano a dover interrompere la psicoterapia;
- Il paziente sente che andando avanti potrebbe vivere una vita migliore di quella che vive attualmente e che il suo psicoterapeuta potrà continuare ad essergli d’aiuto nel raggiungere tale obiettivo, anche se il lavoro terapeutico sta prendendo più tempo di quanto avesse immaginato inizialmente;
- Il paziente sa che, data la sua storia, ha costantemente bisogno di qualcuno che lo accompagni e lo sostenga nei suoi tentativi di superare le difficoltà. Egli sa che, se fosse lasciato a se stesso, probabilmente si lascerebbe andare alla deriva. Scegliere di continuare è quindi un po’ come avere un personal trainer in palestra, perché si sa altrimenti non ci si allenerebbe;
- Il paziente ha piena fiducia nel proprio psicoterapeuta e questi dice che si farebbe un errore ad interrompere la psicoterapia.
La cosa più importante però è tenere presente che il pensiero di interrompere una terapia è un pensiero che va vissuto ed espresso serenamente, poiché potrebbe veicolare con sé molteplici significati. Non importa dove condurrà questo pensiero, la cosa fondamentale è che possa essere trattato e discusso all’interno della terapia poiché può potenzialmente aprire discussioni preziose e stimolanti.