Tempo di mondiali di calcio, tempo di sport. Recentemente mi sono imbattuto in un vecchio libro di Cesare Musatti, “Chi ha paura del lupo cattivo”. È una raccolta di scritti edita per la prima volta nel 1987. Cesare Musatti è da molti ritenuto il “padre” della psicoanalisi italiana. Nato nel 1897 si laurea in filosofia a Padova, dove poi succede a Vittorio Benussi nella cattedra di psicologia. Ha avuto un ruolo importantissimo nel divulgare in Italia la psicologia della Gestalt e la psicoanalisi.
In questo libro, dunque, vi è uno scritto dal titolo: Considerazioni psicologiche sullo sport che mi ha incuriosito. Musatti, proclamandosi non sportivo, si trova “costretto” a parlare di sport da psicologo, cioè indagandone gli aspetti emotivi e motivazionali ed anche quelli riguardanti fenomeni collettivi e sociali.
Innanzitutto Musatti cerca di circoscrivere l’ambito sportivo non tanto agli aspetti, ginnici, i quali comprenderebbero molte forme di attività che soddisfano diversi tipi di tendenze individuali, ma quelli competitivi. “Perché si abbia sport deve esserci un fattore competitivo. Questo elemento competitivo stimola l’ambizione personale: il desiderio di essere più bravo degli altri.”
Ma l’elemento competitivo, seppur necessario, secondo Musatti non è sufficiente di per sé a far nascere lo sport. Serve un altro elemento: il tifo, la presenza del pubblico, che interviene parteggiando per l’uno o l’altro dei contendenti. Questo elemento fa sì che in alcuni sport si sviluppino e si appaghino elementi di aggressività ed è uno dei motivi per cui si stabiliscono delle regole precise. “Il contrasto fra l’impeto con cui gli atleti si attaccano e contrattaccano, e lo scambio di cortesie alla fine dell’incontro, costituisce un esempio di come si possa mascherare o neutralizzare l’elemento aggressivo istintuale”.
Ma ci sono anche determinati giochi che non dovrebbero rientrare nello sport e che invece, per via della loro elevata competitività e per il fatto che vi sia anche il fenomeno del tifo vengono assimilati allo sport: ad esempio i tornei di scacchi o di bridge. Questo è un passaggio importante poiché toglierebbe allo sport la necessità che vi sia uno sforzo prettamente fisico.
“In un certo modo i protagonisti della situazione sportiva non sono tanto quelli che propriamente gareggiano, ma quelli che parteggiano”.
Parteggiare, fare il tifo, è un’attività umana che ha a che fare con la capacità di identificarsi con l’altro, di vivere la sua situazione senza però caricarsi del peso che incombe sull’atleta. Ciò permette anche la possibilità di convogliare e scaricare elementi di aggressività. Non solo: l’identificazione permette anche di elevare la propria autostima mediante un processo ben esemplificato da Musatti: “Il costume di identificare le sorti, l’avvenire, l’onore, il prestigio del proprio paese con una vittoria sportiva; il fatto di sentirsi individualmente esaltati per un processo di identificazione per cui nel momento dell’entusiasmo, la squadra campione, l’Italia, sono io stesso, ed io mi sento non più un poveraccio qualunque, ma questo o quel giocatore: <<Rossi sei grande. Ma se tu sei grande, sono grande anch’io con te>>.
Dunque lo sport ha a che fare con una situazione competitiva in cui vengono espressi ed appagati fattori istintuali fortemente intrecciati con l’aggressività latente che esiste in ciascuno; lo sport non si presenta come violenza scatenata sebbene vi sia comunque una componente umana e fisiologica di aggressività, ragion per cui è necessaria una serie di norme e regole di comportamento che dovrebbero impedire alla competizione di poter degenerare.
E conclude: “Da tutto ciò esce fuori anche il carattere ludico dello sport: il fatto che si tratta di unì’attività finalizzata a soddisfare – per se stessi e per il pubblico – il piacere della competizione, e la soddisfazione narcisistica per la parte vincente”.