Essere grassi il più delle volte non è una scelta, vergognarsene lo è.
di Robin Young (New York)
Le persone grasse vengono spesso accusate di essere “deboli”, di non avere forza di volontà e di essere pigre; le critiche verso di loro spesso assumono le caratteristiche di una raffica ininterrotta di accuse. Eppure nonostante la ricerca sia chiara – essere grassi non è una scelta – resta aperto il problema dell’atteggiamento culturale verso le persone grasse, la cui interiorizzazione fa sì che così tanti ne soffrano.
Vergogna
La vergogna è quella sensazione di fallimento, inutilità, ha a che fare con il sentirsi “difettosi o mancanti” al punto da convincere una persona di essere diversa e non meritevole di amore. La vergogna è uno dei sentimenti più dolorosi, nocivi e pericolosi che si possa sperimentare.
Chiamare qualcuno “grasso” significa fargli provare vergogna. Obeso e sovrappeso sono termini meno apparentemente meno dispregiativi ma tutti sanno che si riferiscono a qualcuno che è “grasso”.
Ad ogni modo non è necessario soddisfare lo standard medico dell’obesità (secondo l’OMS: indice di massa corporea superiore a 30, se superiore a 25 si parla di sovrappeso) perché ci si vergogni di essere grassi. La nostra società è ossessionata dal fitness e dalla magrezza fino al punto che qualsiasi deviazione dall’ideale può innescare sentimenti di vergogna che poi inducono a moltiplicare freneticamente gli nostri sforzi dedicati a dieta ed esercizio fisico.
L’ultimo pregiudizio socialmente accettabile
Il disprezzo verso le persone grasse è chiaramente un pregiudizio e si tratta probabilmente dell’ultimo pregiudizio socialmente accettabile. Attaccare o mostrare disprezzo per qualcuno che è obeso non è diverso dall’attaccare qualcuno per il colore della sua pelle, per la sua etnia o per il suo orientamento sessuale. La maggior parte delle persone disapprova questi pregiudizi mentre attaccare le persone grasse resta in qualche modo socialmente accettabile.
Questo però non è il problema maggiore: forse un giorno la nostra società sarà in grado di proteggerci dall’odio degli altri ma non potrà mai proteggerci da noi stessi. La realtà è che – per la maggior parte delle persone – l’attacco è autoinflitto, proviene da se stessi. Ci si odia e si prova vergogna per non essere all’altezza dell’ideale della nostra società (e della propria famiglia?). Le norme sociali sono così profondamente interiorizzate al punto da essere terrorizzati di prendere qualche chilo in più.
In realtà per la maggior parte dei casi non c’è una cura
Per una parte consistente della popolazione in realtà non c’è cura: la battaglia è già persa. Dal 1959 la ricerca ha dimostrato che dal 95% al 98% dei tentativi di perdere peso falliscono: in due terzi dei casi dopo una dieta si prende più peso di quanto se ne sia perso.
Dal 1969 la ricerca ha costantemente dimostrato che i fallimenti dei tentativi di perdere peso hanno una base biologica: perdere solo il 3% del peso corporeo si traduce in un rallentamento del 17% del metabolismo e in un’esplosione di ormoni messaggeri della fame che fa sentire come se si stesse letteralmente morendo di fame. Questa situazione dura fino a che non si ritorna almeno al peso precedente. Non si tratta di una semplice sensazione di fame, quella sensazione che ci ricorda di mangiare, ma è una sensazione diversa e più urgente: è la sensazione che si morirà se non si mangia.
Perdere peso e mantenerlo significa combattere questo sistema di regolazione dell’energia e combattere la sensazione di fame per tutto il giorno, tutti i giorni, per il resto della vita. Nonostante più di 50 anni di ricerca scientifica dimostrino che l’obesità è una condizione umana che non ha una “cura”, la condanna sociale rimane. E le persone obese soffrono della vergogna che ne deriva e di tutte le ricadute psicologiche che la accompagnano.
Bonnie
Bonnie è una donna d’affari di grande successo, entrata in terapia dopo un intervento di chirurgia bariatrica (è una branca della chirurgia che si occupa di interventi per l’obesità). Non le è mai stata diagnosticata l’obesità ma si è sottoposta all’intervento chirurgico perché terrorizzata di diventare come sua madre, da sempre schernita e presa in giro per essere obesa.
Bonnie si era sempre più isolata per paura che la gente la ridicolizzasse. La speranza che la chirurgia bariatrica avrebbe messo fine alla sua vergogna la portò a sottoporsi a questa procedura altamente invasiva e rischiosa.
Harriett
Harriet è una donna di quarant’anni, affascinante, attiva e di successo. Ha guadagnato e perso peso per tutta la sua vita. Ogni volta che il suo peso diminuiva usciva con degli uomini sperando di incontrare qualcuno che la amasse ma, quando il suo peso inevitabilmente risaliva, era così piena di vergogna che si isolava in un mondo fatto di disgusto verso di sé. Non riusciva più a immaginare che un uomo l’avrebbe ancora voluta così come era: la sua vergogna era paralizzante.
Entrambe queste pazienti sono entrate in terapia a causa di una profonda vergogna relativa all’obesità, immaginata o reale. La loro fantasia comune era che la perdita di peso le avrebbe liberate una volta per tutte dalla vergogna: speravano di sfuggire alla vergogna invece di affrontarla. Solo attraverso il riconoscimento e l’elaborazione dei loro sentimenti paralizzanti di vergogna sono state in grado di andare avanti nella loro vita.
Affrontare la vergogna
Per ridurre gli effetti paralizzanti della vergogna può essere utile concentrarsi su altri aspetti come, ad esempio, essere in salute:
- Invece di stare a dieta, concentrarsi sul mangiare cibo sano.
- Invece di fare esercizio fisico per perdere peso, fare esercizio per stare bene e in salute.
- Invece di concentrarsi sul proprio aspetto, lavorare con uno psicoterapeuta sui propri pregiudizi rispetto all’essere grassi e sui conseguenti sentimenti di vergogna.
Proprio come le persone che venivano ostracizzate per essere neri o gay hanno dovuto maturare l’orgoglio di essere ciò che sono, anche le persone grasse dovrebbero forse trovare l’orgoglio di essere grandi e belle. E se poter assomigliare a Emma Stone non è un’opzione praticabile, perché non prendere Adele come modello?
Robin Young, autrice dell’articolo originale, qui tradotto e adattato, è una psicoanalista e psicoterapeuta con oltre 40 anni di esperienza. È docente e un supervisore alla National Psychological Association for Psychoanalysis. È anche docente a contratto presso la NYU School of Social Work ed ha uno studio privato nell’Upper West Side di Manhattan.
L’obiezione che molti medici muovono a queste argomentazioni è che l’obesità vada “combattuta” in quanto predispone ad una serie di problemi fisici piuttosto importanti. Questo è vero, esattamente come è vero che molte persone sono geneticamente predisposte ad una serie di importanti problemi. Però non sempre è possibile fare qualcosa, per le predisposizioni genetiche come per l’obesità. Ma quando la medicina è in grado di trovare un alibi per la propria (umana) impotenza, non esita a sfruttarlo! E molto spesso l’alibi è dare la colpa al paziente: non ha fatto abbastanza prevenzione, non ha avuto abbastanza forza di volontà, non ha seguito le indicazioni… Su questo tema ci sarebbe molto da dire e molto da riflettere. Spesso, oltre alla malattia, alla vergogna, questo atteggiamento dei medici aggiunge ad una sofferenza un carico di colpa notevole. Insomma, non è certo il benessere che in questo modo si favorisce… Norbert Bensaid, medico di base e psicoanalista francece, ha scritto un libro – oramai purtroppo difficilmente reperibile – di grande interesse su questo tema: <<Le illusioni della medicina. La prevenzione come alibi>>.
Luca Mazzotta. Psicologo Psicoterapeuta Psicoanalista