Lo sviluppo della realtà psichica – Parte 2/3
L’integrazione delle due modalità di pensiero
di Luca Mazzotta
A partire dai tre-quattro anni le modalità psichiche dell’equivalenza e del far finta iniziano a funzionare in maniera sempre più integrata, giungendo gradualmente a quella che viene chiamata modalità riflessiva o mentalizzante.
Tutto questo però non avviene come semplice maturazione endopsichica: è necessario l’attivo coinvolgimento di figure significative che possano aiutare il bambino ad accettare, gradualmente, l’esistenza delle due realtà (interna ed esterna) come differenti e separate ma allo stesso tempo interagenti tra loro.
“Un caregiver che mentalizzi è in grado di creare una connessione tra due messe a fuoco che si alternano tra loro, una mirata alla realtà fisica e l’altra allo stato interno, per un tempo sufficientemente lungo perché il bambino possa identificare la contingenza tra le due” (J.G. Allen e P. Fonagy: Mentalization-Based Treatment; Chichester, John Wiley & Sons, 2006 – Trad. italiana.: La mentalizzazione. Psicopatologia e trattamento. Bologna, Il Mulino, 2008)
In effetti il bambino non può essere visto semplicemente come un “processore isolato di informazioni”, che accumula rappresentazioni del mondo tramite l’osservazione. Da un punto di vista psicoanalitico è impossibile ignorare il ruolo centrale svolto dalla relazione globale ed emotiva del bambino con i genitori, relazione che favorisce la capacità di comprendere le relazioni in termini di stati mentali mediante, appunto, l’integrazione della modalità dell’equivalenza psichica e di quella del far finta.
L’integrazione delle due modalità psichiche è estremamente importante in quanto permette al bambino (ed al futuro adulto) di non dover ricorrere ad una scissione del funzionamento dell’Io al fine di mantenere la modalità di pensiero duale. Quando il bambino percepisce che qualcuno riflette il suo stato mentale, come accade ad esempio nel “gioco sicuro”, egli fa un’esperienza che gli permette di integrare le modalità dell’equivalenza psichica con quella del far finta.
L’integrazione tra le due diverse modalità, e dunque il raggiungimento di una realtà psichica mentalizzante, avviene grazie alla ripetuta e contemporanea sperimentazione, da parte del bambino, di tre cose:
- i suoi pensieri e sentimenti,
- gli stessi sui pensieri e sentimenti rappresentati però riflessivamente nella mente dell’oggetto disponibile (il caregiver, il genitore ecc.)
- una situazione che lo metta al riparo da attivazioni emotive sovrastanti.
Un adulto che “stia al gioco” fa in modo che il bambino stesso possa vedere la sua fantasia rappresentata nella mente dell’altro, per poterla successivamente reintroiettare ed usare rappresentazione del suo pensiero. Il tutto ovviamente in una situazione di sicurezza che non richieda una eccessiva regolazione degli affetti, che inevitabilmente finirebbe con il distogliere l’attenzione del bambino da un compito molto delicato.
In questo senso il gioco condiviso è di vitale importanza ai fini della integrazione delle due modalità sperimentate nella prima infanzia. Inizialmente il bambino è spinto verso il gioco per ottenere un sollievo che gli proviene dal separare le credenze dalle loro conseguenze; solo successivamente, e con l’aiuto di un adulto, potrà gettare un ponte tra credenze e mondo reale, superando così la scissione nell’esperienza di sé. L’adulto infatti può riflettere lo stato mentale del bambino in modo chiaro e accurato, in modo che questi possa pian piano introiettare la rappresentazione fornitagli dal genitore della sua realtà interna come la base per il proprio pensiero simbolico, cioè la rappresentazione delle sue rappresentazioni. Se l’adulto, giocando col bambino, fa finta che la bottiglia sia una locomotiva, permette in questo modo al bambino di mettere a confronto ciò che appare (la locomotiva) con ciò che è reale (la bottiglia), distinguendo le due cose e gettando allo stesso tempo un ponte tra di esse. Dunque il bambino impara che ciò che appare può non essere ciò che è. Il gioco, con l’aiuto dell’adulto “sufficientemente” riflessivo, permette di uscire dalla modalità di equivalenza psichica. L’essenza del processo che permette di abbandonare la modalità dell’equivalenza psichica non è semplicemente il gioco, ma il gioco giocato insieme. Il genitore, giocando, entra nella prospettiva del bambino e, allo stesso tempo, gli fornisce la possibilità di distanziarsene. Il bambino, usando la mente del genitore (e facendo un confronto con la realtà) vede la sua rappresentazione (la locomotiva) e diviene quindi in grado di giocare con la realtà (la bottiglia). Il genitore infatti permette al bambino di vedere che la realtà può essere distorta, giocandoci. In realtà ciò non avviene solo attraverso il gioco, ma anche all’interno di un quadro mentale “serio” del bambino. Ad esempio un bambino piccolo può essere spaventato dalla vestaglia appesa dietro la porta al punto da non riuscire ad addormentarsi: la vestaglia sembra un uomo pronto a saltargli addosso (modalità dell’equivalenza psichica). Questo fatto è reale per il bambino. Il genitore che non si limita a dirgli che è solo una vestaglia o che è stupido averne paura, ma che accetta la realtà spaventosa del bambino – senza mostrarsene impaurito – togliendo la vestaglia dalla porta, fornisce al bambino la possibilità di distanziarsi gradualmente dalla sua modalità di equivalenza psichica.
Ecco che appare evidente come il sistema dell’attaccamento ed una efficace funzione riflessiva del caregiver giochino un ruolo fondamentale: se i bambini trovano un ambiente sicuro all’interno del loro sistema di attaccamento, a loro volta si sentono più liberi di esplorare le menti dei loro oggetti. In caso contrario, l’eccessiva attivazione emotiva distoglierà il bambino dalla possibilità di cogliere la sua esperienza nella mente dell’altro. Accade un po’ quello che si osserva nella fase di sperimentazione descritta da Margaret Mahler, quando il bambino si sente libero di esplorare il mondo solo se sente di poter contare su di una base sicura cui far ritorno in caso di necessità.
Ad ogni modo non solo le figure tradizionalmente indicate col termine caregiver sono importanti ai fini di questa integrazione delle due modalità psichiche nel bambino, ma anche gli insegnanti, i vicini ed i fratelli più grandi possono giocare un ruolo importante. Ovviamente questa integrazione può essere facilitata o resa possibile anche da specifici interventi professionali.
Si deve tenere presente, inoltre, che nel corso di questa integrazione vi è la possibilità di un aumento considerevole dei conflitti, come quando certe fantasie come quelle legate ai desideri edipici diventano rappresentazioni non più relegate nel mondo scisso del far finta ma possono essere messe in relazione con la realtà esterna. Fin quando i mondi del far finta e della realtà restano separati, la realtà psichica del bambino può comprendere rappresentazioni di fantasia che altrimenti sarebbero altamente conflittuali a contatto con il mondo esterno. La fantasia del desiderio esclusivo del genitore di sesso opposto, ad esempio, non è sentita come minacciosa finché viene mantenuta nella modalità del far finta, cioè se questa fantasia è completamente separata dalla realtà esterna. Con la separazione delle due modalità psichiche, perfino i desideri coscienti non sollevano necessariamente dei conflitti. Quando però la modalità del far finta inizia ad essere integrata gradualmente con la realtà esterna, allora i pensieri possono essere presi per reali. Inoltre inizia ad esistere un “terzo” in grado di pensare i pensieri del bambino, di osservare i suoi desideri e che quindi può ricorrere alla minaccia della castrazione. Questo terzo, infatti, inizia ad esistere proprio perché viene “visto” nella mente della madre grazie alla nuova capacità del bambino di cogliere e distinguere i desideri della madre come separati dai propri. E non a caso la fioritura dell’Edipo coincide proprio con la maturazione mentale che costringe il bambino a prendere atto che i desideri della madre non coincidono con i propri.
E’ però proprio la capacità di integrare le due modalità che renderà possibile al bambino vedere i propri sentimenti (e quelli del “terzo” che entra in scena con la fase edipica) “solo” come sentimenti invece che come cose spaventosamente reali. In questo modo sarà possibile risolvere il complesso edipico: ciò avviene prevalentemente mediante la rimozione dell’idea, che ora è finalmente riconoscibile in quanto tale e pertanto scindibile dalla realtà e dall’affetto ad essa collegato.
L’acquisizione della mentalizzazione è fondamentale per diversi motivi, ad esempio:
- se le azioni degli altri divengono prevedibili, allora è possibile ridurre la propria dipendenza dagli altri, favorendo il processo di separazione-individuazione;
- la mentalizzazione permette una distinzione tra verità interna ed esterna, e ciò è cruciale nei casi di maltrattamento o trauma;
- la mentalizzazione favorisce la comunicazione poiché questa, senza una chiara rappresentazione dello stato mentale dell’altro, sarebbe molto limitata;
- infine la mentalizzazione permette di vivere esperienze affettivamente più profonde con gli altri, e dunque di vivere una vita piena di significato.
Nel prossimo articolo vedremo in quali situazioni l’integrazione tra le due modalità psichiche può non avvenire e con quali conseguenze.