Lo sviluppo della realtà psichica – Parte 1/3
Equivalenza psichica e modalità del far finta
di Luca Mazzotta
In che modo conosciamo la nostra mente? Cosa intendiamo quando parliamo di “realtà psichica”? La realtà psichica è sperimentata direttamente, come una cosa data, oppure i pensieri, i desideri, gli stati mentali si formano in qualche modo? Per rispondere a queste domande non è possibile prescindere da una prospettiva evolutiva, tenendo presente che la realtà psichica è radicalmente diversa nel bambino piccolo rispetto ad un adulto. Lo sviluppo mentale del bambino inoltre dipende in maniera fondamentale dall’interazione con altre persone sufficientemente empatiche e riflessive.
Il senso della realtà psichica di un bambino piccolo ha una doppia modalità, che inizialmente è scissa: la modalità dell’equivalenza psichica e la modalità del far finta. Solo la successiva integrazione delle due modalità, grazie all’interazione sufficientemente riflessiva con il caregiver, porta alla capacità di “mentalizzare”.
La modalità dell’equivalenza psichica
Nella modalità dell’equivalenza psichica il bambino identifica il mondo interno con il mondo esterno: ciò che è nella sua mente deve essere anche fuori e dunque ciò che è fuori deve essere anche nella sua mente. Le idee non sono sentite come rappresentazioni mentali ma come cose reali e quindi sempre vere. Non c’è possibilità di avere prospettive alternative e perciò le fantasie dei bambini piccoli possono essere terrificanti in quanto effettivamente reali.
Per il bambino piccolo i propri stati psicologici sono parte di una realtà fisica obiettiva, e dunque anche gli altri non possono che avere le stesse esperienze che ha lui. Questa fase di identità tra interno ed esterno è una fase universale nello sviluppo del bambino. Inoltre, essendo le esperienze mentali equivalenti alle esperienze fisiche, l’apparenza è realtà: una spugna a forma di sasso è un sasso perché sembra un sasso. Ancora: la presenza di un oggetto equivale al desiderio di quell’oggetto. La percezione dell’oggetto o il desiderio dell’oggetto non sono rappresentazioni che si riferiscono all’oggetto ma sono l’oggetto. Per esempio, a dei bambini è stata presentata una scatola di dolci che conteneva matite. Quando è stato chiesto loro cosa avevano pensato che contenesse prima che venisse aperta, la maggior parte dei bambini di tre anni (a differenza di quelli di quattro) ha risposto “matite”. A tre anni quindi il bambino può non avere ancora la capacità di cogliere la natura rappresentazionale di idee, desideri e sentimenti.
La modalità del far finta
Esiste nella modalità psichica del bambino anche un altro aspetto da tenere in considerazione: l’immaginazione. Il bambino può liberarsi dall’angusto mondo dell’equivalenza psichica mediante il gioco, il quale ha un ruolo fondamentale nello sviluppo del pensiero, nello sviluppo dell’esperienza emotiva e soprattutto nella loro integrazione. Nella modalità del far finta, che è il complemento della modalità dell’equivalenza psichica,il bambino sa che l’esperienza interna può non coincidere con la realtà esterna: in altri termini è in grado di fare una considerazione che gli sarebbe impossibile fare nella modalità dell’equivalenza psichica.
Tuttavia questa modalità, nei bambini al di sotto dei quattro anni, ha una profonda limitazione: lo stato interno è nettamente separato dal mondo esterno, in quanto il bambino non è ancora capace di concepire l’esperienza interna come un fatto mentale o rappresentativo. Non vi è dunque relazione tra la modalità dell’equivalenza psichica e quella del far finta: sono due modalità di pensiero nettamente scisse. Ciò avviene soprattutto per evitare che l’equivalenza interno-esterno possa diventare minacciosa per il bambino. È quindi possibile interpretare la modalità del far finta come una
“forma di difesa contro le conseguenze che deriverebbero dal considerare reale la realtà psichica: una sorta di disconnessione del mondo interno dall’esterno che dà spazio a fantasie consce” (M. Target, P. Fonagy: Playing with reality: II. The development of psychic reality from a theoretical perspective – International Journal of Psycho-Analysis. 1996/77)
I bambini, quando giocano, sanno che ciò che pensano non è reale (possono giocare con una bottiglia immaginando che sia una locomotiva anche se sanno che non si tratta davvero di una locomotiva) eppure paradossalmente non sono ancora in grado di operare la stessa distinzione anche al di fuori del “gioco”. Il bambino mentre gioca può giocare con i pensieri proprio perché questi, nella modalità del far finta, sono completamente privati di ogni connessione con il mondo reale. E’ frequente osservare i bambini di due o tre anni passare molto tempo a “negoziare” i ruoli e le regole dei giochi, lasciando poi pochissimo tempo al gioco stesso: per loro, infatti, è molto importante sottolineare una chiara e netta (e rassicurante) divisione tra “gioco” e “realtà”.
La modalità dell’equivalenza psichica e quella del far finta sono quindi completamente scisse nel bambino piccolo. A partire dai tre o quattro anni però, le due modalità iniziano a funzionare in maniera sempre più integrata, giungendo gradualmente alla modalità riflessiva o mentalizzante: gli stati mentali vengono sperimentati come rappresentazioni ed il bambino comprende che il suo comportamento, e quello dell’oggetto, ha un senso in termini di stati mentali, affetti, emozioni e desideri. Queste rappresentazioni, inoltre, iniziano a essere percepite come mutevoli ed anche come non necessariamente congruenti con ciò che appare, proprio perché il bambino inizia a sperimentare la possibilità di poter immaginare diverse prospettive.
La realtà interna e quella esterna iniziano quindi a differenziarsi, restando però collegate tra loro: le cose possono non essere come appaiono, le credenze possono avere diversi gradi di certezza e le credenze che si hanno ora potevano essere diverse in passato. Ciò fornisce la base per la percezione di una continuità nell’esperienza del Sé.
Vedremo in seguito in che modo avviene questa integrazione e quali sono le condizioni necessarie affinché il processo possa svilupparsi in modo adeguato.