Mentalizzazione: la mente che contiene la mente
Dott. Luca Mazzotta – Psicologo a Milano
La capacità di riconoscere, pensare ed interpretare i propri e gli altrui stati e processi psichici può essere considerata come una prima e intuitiva definizione del concetto di mentalizzazione.
In realtà non è affatto un compito semplice dare una definizione esaustiva di tale termine, poiché in esso è presente un riferimento autoreferenziale, un pensiero che cerca di cogliere, riconoscere e interpretare se stesso.
Bion ha proposto una teoria sull’origine del pensiero, visto come una risposta alla frustrazione, ad una assenza o separazione, una funzione in grado di mantenere l’equilibrio affettivo
L’origine del termine, con il significato specifico cui ci si riferisce in questo lavoro, cioè il “pensare il pensiero”, risale ai primi anni novanta, quando è apparso alla comunità psicoanalitica internazionale un articolo di Fonagy riguardante il trattamento di un paziente borderline che presentava una evidente negazione delle facoltà mentali dei suoi oggetti insieme a specifiche fantasie di inaccessibilità al contatto relazionale (Fonagy, 1991). Fonagy osservò che l’incapacità di concepire i propri contenuti mentali e quelli degli oggetti aveva reso impossibile la costruzione di adeguate relazioni oggettuali: il paziente, infatti, cadeva spesso in preda allo smarrimento, o peggio al terrore, nel momento in cui cercava di riflettere su di sé o sui sentimenti e le intenzioni degli altri.
La McWilliams fa notare che i pazienti borderline soffrono, sebbene ad un livello meno catastrofico rispetto agli psicotici, di un particolare senso di incoerenza e discontinuità riguardo alla propria identità (McWilliams, 1994).
Secondo il modello di Fonagy, il paziente borderline presenta una disorganizzazione profonda della struttura del Sé come esito di una compromessa capacità di mentalizzare, la quale a sua volta non permetterebbe di regolare e controllare le modalità più primitive di comportamento e di interazione. La distinzione interno-esterno inoltre, risulterebbe particolarmente inefficace.
Effettivamente lo studio del funzionamento psichico borderline delinea le specifiche caratteristiche del disturbo e favorisce la messa a fuoco e la definizione del concetto di mentalizzazione, così come gli effetti di un deficit in questa capacità: la compromissione delle relazioni oggettuali, l’imprevedibilità della risposta interpersonale, la particolare debolezza dell’Io (mancanza di tolleranza all’angoscia, comportamenti impulsivi), la presenza di specifiche operazioni difensive primitive ed un caratteristico scivolamento verso processi di pensiero primario (Kernberg, 1975). La caratteristica comune più frequentemente osservata nei pazienti borderline sembra essere un danneggiamento delle loro relazioni di attaccamento, che appaiono distorte, caotiche, instabili ed estremamente intense (Fonagy, et al., 1995a), particolarmente evidenti anche nel transfert. L’imprevedibilità e l’instabilità rimandano ad una sensazione di difficoltà nell’attribuire un significato coerente, in termini di stati mentali, sia a sé che agli altri. Il funzionamento borderline quindi rappresenta una sfida ed un terreno di verifica delle recenti teorie psicoanalitiche.
Dalle osservazioni relative ad una particolare organizzazione psichica, sembra dunque possibile risalire alle caratteristiche universali dello psichismo, proprio come era successo con le intuizioni di Freud alla fine del diciannovesimo secolo quando, partendo dalle osservazioni di pazienti nevrotici con sintomi di conversione (Freud, Breuer: Studi sull’isteria; 1892-95), aveva finito con il gettare le basi per la comprensione del funzionamento psichico inconscio.
Seguendo le parole di Fonagy: “una delle capacità che caratterizza la mente umana è quella di tenere in considerazione il proprio e l’altrui stato mentale nel processo di comprensione e previsione del comportamento” (Fonagy, 1991).
E’ proprio questa capacità che permette all’uomo di costruire un senso del Sé e di mettersi in relazione con gli altri. Si tratta, dunque, del “cuore” dello psichismo, che caratterizza la specie umana.
La mentalizzazione, o funzione riflessiva, è quindi un fenomeno metacognitivo, che ha a che fare con il significato che attribuiamo alle nostre azioni e a quelle degli altri: azioni che devono necessariamente essere la conseguenza di particolari stati e processi mentali. Si tratta di una forma di “attività mentale immaginativa, essenzialmente preconscia, che percepisce e interpreta il comportamento umano in termini di stati mentali intenzionali” (Allen, et al., 2006).
Mentalizzare significa interpretare implicitamente o esplicitamente le proprie azioni e quelle degli altri come significative, sulla base di stati mentali intenzionali come i desideri personali, i bisogni, i sentimenti, le credenze e le motivazioni (Bateman, et al., 2004). Il focus è dunque la capacità di prestare attenzione agli stati della mente presenti in noi stessi e negli altri, capacità che Fonagy descrive sinteticamente con il “tenere in mente la mente” o con il “pensare al pensiero” (Fonagy, 1991).
Alcune caratteristiche del mentalizzare (Michels, 2006) sono di particolare interesse: la mentalizzazione è mentale, dunque non è neurofisiologica o sociale. Certamente possiamo individuare dei correlati neurofisiologici o degli elementi relativi al contesto sociale ma il fenomeno è un fenomeno essenzialmente mentale. La mentalizzazione, inoltre, è un processo, un lavoro psichico, non un contenuto, un desiderio o simili. Questo processo può essere esplicito (conscio) o più frequentemente implicito (preconscio, in quanto in primo luogo si presuppone godere della proprietà di poter divenire accessibile alla coscienza ed inoltre perché utilizzerebbe modalità di pensiero secondario) e si riferisce sia a se stessi che agli altri, come se si trattasse di due capacità distinte. La mentalizzazione quindi ha a che fare con il Sé e con l’altro con cui si è in relazione e perciò ha sia una componente autoriflessiva che una relazionale (interpersonale).
L’acquisizione della capacità di mentalizzare dipende dalla disponibilità, durante l’età evolutiva, di adeguati modelli adulti, in particolare all’interno delle relazioni oggettuali primarie. E’ proprio in queste relazioni che diviene possibile la comprensione della propria mente, del proprio Sé come “agente mentale”: in altri termini si sviluppa la percezione di se stesso come un essere dotato di una mente. Questo “Sé psicologico” evolve, nei primi anni di vita, attraverso l’interazione con menti più mature, nella speranza che queste siano “sufficientemente buone”, cioè empatiche, sintoniche e dotate di una adeguata capacità riflessiva. “Capire le menti è difficile per chi non abbia avuto l’esperienza di essere capito da una persona con una mente” (Allen, et al., 2006).
Grazie alla disponibilità della funzione riflessiva genitoriale il bambino impara a distinguere tra processi mentali (ed emotivi) interni ed eventi interpersonali, e quindi tra realtà interna ed esterna. Lo stesso Freud utilizzò la distinzione tra realtà del pensiero e realtà esterna (Freud, 1895), intendendo così che l’esperienza interiore, la realtà del pensiero, talvolta poteva essere trattata allo stesso modo che se fosse percepita come proveniente dalla realtà esterna. Quindi la mentalizzazione evidenzia il rapporto tra le relazioni reali e la rappresentazione mentale delle relazioni: lo stesso concetto di Bindung utilizzato da Freud (Freud, 1911) è riferito a quel cambiamento qualitativo dell’attività psichica che passa dal livello esperienziale immediato a quello psicologico associativo (mediato), cioè dall’esterno al mentale.
La differenza sostanziale consiste nel ritenere che questa capacità non possa essere acquisita mediante la cartesiana introspezione [(Wundt, 1896) e (Titchener, 1898)] ma solo e necessariamente mediante la relazione. In effetti nessuna capacità introspettiva rivolta ai propri stati mentali sarebbe possibile senza la capacità di distinguere gli stati mentali dagli eventi del mondo esterno, e questa capacità è fornita proprio dall’interazione con caregiver adeguatamente riflessivi.
La mentalizzazione è dunque un’attività simbolica, rappresentazionale, che permette al bambino (e poi all’adulto) di interpretare il proprio comportamento e quello degli altri in termini di stati mentali. La disponibilità di menti adulte sufficientemente riflessive (cioè in grado di mentalizzare) consente al bambino di avere accesso alle altrui credenze, sentimenti e atteggiamenti, desideri, speranze ecc. Inoltre, il bambino ha la possibilità di “trovarsi e riconoscersi” in quanto rappresentato nella mente di un altro significativo. Contemporaneamente, avendo attribuito un senso che permette di prevedere il comportamento altrui, il bambino diviene capace di rappresentarsi in maniera flessibile anche la relazione tra il Sé e l’altro, in maniera adeguata al contesto in cui essi si trovano, favorendo in questo modo una efficace regolazione affettiva, un miglior controllo degli impulsi ed un maggiore senso di Sé come agente (mentale).
Opere citate
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Bion W.R. 1962 A Theory of thinking // International Journal of Psycho-Analysis – Vol. 43 – p. 306-310. Tr. it.: “Una teoria del pensiero” in “Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico”. Roma, Armando (1970).
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Freud S. 1895 Progetto di una psicologia – OSF, 1.
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Fonagy, P.; Steele, M.; Steele, H.; Leigh, T.; Kennedy, R.; Matoon, C.; Target, M. 1995 Attachment, the reflective self and borderline states // Attachment, Theory Social, Development and Clinical Perspectives / Goldberg S. Muir R. e Kerr J. (a cura di) – Hillsdale: Analytic Press – Tr. it. in: “Attaccamento e funzione riflessiva”. Fonagy P.; Target M.; Milano, Cortina (2001).
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