Lo psicoanalista Edgar Levenson, professore di psicologia clinica presso la New York University, illustra con un articolo divulgativo – che qui riporto tradotto e adattato – perché sia così difficile aiutare una persona a cambiare.
Il cambiamento è qualcosa di molto difficile, per chiunque. Ai tempi dei primi trattamenti psicoanalitici i pazienti venivano divisi in due categorie: i pazienti “analizzabili” e quelli “non-analizzabili”. Se il trattamento non portava a qualche risultato allora ciò era dovuto ad una inadeguata motivazione o a una diagnosi sbagliata. Ora le cose stanno in modo un po’ diverso: non si sente parlare esclusivamente di pazienti “incurabili” ma anche di “fallimento della terapia”.
L’attuale enfasi posta sulle vicende evolutive precoci – in particolare ai traumi e micro-traumi relazionali e alla deprivazione emotiva – ha portato gli psicoanalisti, così come i genitori, a ritenersi responsabili dei fallimenti dei loro sforzi nei confronti dei “pazienti” e dei “bambini”. Però, seppur lodevole, credo che questo atteggiamento sottovaluti il contributo del paziente – non del tutto consapevole – all’impasse terapeutica. E’ il paziente che, seppure esplicitamente senta e dichiari di voler cambiare, per primo oppone resistenza al cambiamento.
Ma perché qualcuno dovrebbe rifiutare gli sforzi così ben intenzionati dell’analista? Forse dietro al rifiuto c’è qualcosa di più profondo.
Paura del potere dell’altro. Si dice che le persone inizino un trattamento perché la loro nevrosi non sta più funzionando bene e desiderano che ricominci a funzionare come prima: l’amante ansiosa che continua a chiedere rassicurazioni al suo partner non vuole capire la causa della sua ansia (e quindi modificare il suo comportamento), vuole invece essere aiutata a rendere le sue richieste più efficaci nel portare il suo partner a rassicurarla.
Quindi il primo passo è voler realmente cambiare. Poi, subito dopo, c’è il problema di voler essere cambiato, dall’analista. Sembra proprio che sia inevitabile provare a resistere con ogni mezzo all’influenza dell’altro, per quanto questi sia benintenzionato. Come lascia intendere il detto buddista: “Se incontri per strada il Buddha , uccidilo!”. L’autonomia viene difesa, sottomettersi al potere di un altro (che in realtà non è mai totalmente disinteressato) è qualcosa di altamente rischioso e spiacevole.
Molto spesso accade che una terapia stagnante inizi a produrre risultati proprio quando l’analista cessa di provare ad aiutare il paziente in modo insistente. Spesso i pazienti “difficili” diventano più collaboranti quando iniziano a comprendere che il successo della terapia dipende più dal loro desiderio che da qualche capacità “magica” dell’analista.
La paura dell’impotenza. Si deve sempre tenere presente che una nevrosi, per quanto spiacevole, è sempre meglio di qualcos’altro. I meccanismi nevrotici in qualche modo comunque funzionano. Si traducono il più delle volte in risultati prevedibili, anche se spesso si tratta di risultati non ottimali. Ad esempio, se si ha paura di non essere amati e di essere respinti, mantenere una certa distanza dalle persone è rassicurante proprio per il suo esito prevedibile: non si piace a nessuno ma almeno si sa perché!
La paura dell’esclusione. La più antica e radicata ansia sociale ha a che fare con la paura di espulsione dalla tribù. La scomunica, in tutte le sue forme – familiare, religiosa, sociale – è un potente incentivo alla sottomissione al gruppo. Più il paziente si allontana dalla sua famiglia, più diventa preoccupato per una sua eventuale esclusione da essa. L’analista spesso è situato dall’altra parte della recinzione che delimita l’area familiare: è uno straniero! Questo deve essere sempre tenuto a mente. Si possono avere sentimenti negativi verso la propria famiglia ma contemporaneamente anche amore, attaccamento e paura di essere esclusi.
La paura di crescere. Una nevrosi è come una macchina in grado di fermare il tempo: il paziente rimane, come Peter Pan, disorientato ma per sempre giovane. A volte dopo un importante progresso terapeutico il paziente comincia a pensare al tempo che passa, all’invecchiare, al cambiamento, alla morte: essere adulti dopotutto ha anche degli svantaggi! Così come un’infanzia nevrotica ha i suoi lati positivi: la sicurezza del familiare. Inoltre lasciarsi dietro la propria infanzia significa rinunciare alla vendetta: le cicatrici della propria infanzia sono sia un potente rimprovero che una richiesta di risarcimento.
Lo strano piacere di rovinare tutto. Forse alla gente piace creare problemi, far saltare le cose. Può esserci desiderio e passione senza pericolo? Sottovalutare questo impulso – così umano – di far saltare tutto per aria, di distruggere, può portare a non cogliere un aspetto universale, presente nella passione come nella dipendenza. Come Freud e Dostoevskij dicevano, forse la gente non vuole essere semplicemente felice: c’è un aspetto oscuro e irrazionale del desiderio umano che preferiamo non considerare.
Invece di chiedersi: “Che cosa si può fare o dire per promuovere il cambiamento?” ci si potrebbe chiedere: “Perché quella persona non può o non vuole beneficiare degli sforzi fatti per aiutarla?”. Tutti abbiamo fatto esperienza, nel corso della nostra vita, di varie persone che hanno cercato di influenzarci (nel bene o nel male): spesso ci siamo opposti. Questo è proprio il lavoro dell’impresa analitica!
La psicoanalisi rimane lo strumento più efficace per promuovere una reale crescita personale. Come la Lepre in Alice nel Paese delle Meraviglie, che dopo aver cercato di riparare l’orologio rotto spalmando del burro su di esso, quando ciò non ha funzionato, ha detto malinconicamente: “Ma il burro era ottimo”! Forse l’efficacia psicoanalitica ha meno a che fare con l’applicazione del “burro migliore” e più con la capacità di rispettare profondamente il bisogno del paziente di scoprire la propria integrità, anche rifiutando le migliori intenzioni dell’analista di aiutarlo a cambiare!