Non si parla d’altro: della diffusione del coronavirus e del “panico” collettivo che questa epidemia sta causando. In contrapposizione a queste manifestazioni di profonda preoccupazione molti si mostrano orgogliosamente impavidi: “io non ho affatto paura!” dicono.
Dunque c’è una certa polarizzazione: chi è terrorizzato ed agisce impulsivamente e chi non ha affatto paura. Due comportamenti in realtà ugualmente irrazionali: la psicoanalisi ha ben illustrato come il diniego sia una (importante) difesa psichica piuttosto primitiva, segnala un funzionamento mentale che, in preda ad un conflitto, tende a regredire a modalità di cognizione meno evolute per preservare uno stato di benessere o per ridurre uno stato d’angoscia. È come il bambino che davanti a qualcosa che lo disturba, non potendo ancora muoversi, gira il capo dall’altra parte. La reazione impulsiva scatenata dalla paura invece ha più a che fare con il fallimento dell’elaborazione mentale: al posto del pensiero c’è una scarica motoria, un’azione impulsiva e compulsiva.
I Greci vedevano il panico come l’emozione scatenata dalla consapevolezza della finitezza umana, la paura scatenata dal tuono di Giove, una paura cui non si può reagire difendendosi o dandosi alla fuga, una paura la cui causa non è conosciuta e contro la quale non vi è nulla da fare.
Allora perché si sta scatenando il “panico” (io parlerei di azioni impulsive) in una situazione come questa? Perché una città come Milano si svuota e i supermercati vengono presi d’assalto? Credo che ciò possa, almeno in parte, avere a che fare proprio con la natura dell’oggetto che minaccia: si tratta di un qualcosa che non è ben percepito (v. ad es. l’articolo sui cinque fattori alla base della paura di un’epidemia), la sua entità non è nota e ci si sente impotenti. Ma soprattutto perché ci si è trovati catapultati all’improvviso in una situazione nuova e le informazioni che giungevano purtroppo erano spesso in contraddizione con le misure precauzionali che venivano messe in atto.
Purtroppo dare informazioni che tendono a minimizzare il pericolo, per evitare che si diffonda il panico, può provocare paradossalmente l’effetto contrario.
Dire che si tratta di poco più di un’influenza quando poi si costruiscono ospedali in poche settimane, si circondano alcune aree del paese con l’esercito, si chiudono le scuole e si annullano gli eventi sportivi, ha come risultato il diffondere il dubbio, l’incertezza, la sfiducia: “non ci stanno dicendo tutto per non farci spaventare, per farci stare calmi, quindi deve essere qualcosa di terribile, più di quello che si pensa e si sa”. Anche la recente decisione di comunicare solo i numeri relativi ai pazienti più gravi potrebbe avere lo stesso effetto paradossale: in fondo si sta apertamente dichiarando che non si dirà tutta la verità!
Si tratta di quelle circostanze che sono ben note agli psicoterapeuti e agli psicologi dell’età evolutiva: un genitore dice (certamente a fin di bene) al suo bambino piccolo di non preoccuparsi, che va tutto bene, ma il bambino percepisce che alcune cose in casa non sono più al loro posto, che alcuni ritmi sono cambiati, che quella ruga sul viso della mamma o del papà non c’era mai stata. In altre parole, il bambino percepisce che ciò che viene detto non coincide con quello che percepisce ma non riesce a spiegarsi cosa stia accadendo. Questa è una situazione altamente ansiogena, può provocare profonda angoscia e panico poiché il bambino pensa che, se non gli dicono qualcosa, è perché si tratta di qualcosa di terribile, che non è neppure in grado di immaginare. E soprattutto si lascia grande spazio alle fantasie più atroci e profonde del bambino.
L’ideale sarebbe comunicare sempre con la massima apertura e trasparenza. Qualcosa che ormai sembra molto difficile fare. Forse in questo caso poter dire sin da subito che si era di fronte ad un’emergenza piuttosto importante per alcune categorie più fragili e vulnerabili (anziani, immunodepressi ecc), e che pertanto era necessario da parte di tutti prendere dei provvedimenti drastici e modificare almeno temporaneamente le proprie abitudini, avrebbe aiutato di più. Provare a responsabilizzare i cittadini può portare a qualcosa di inaspettato. Trattare invece i cittadini come dei bambini ingenui non può che esasperare alcuni comportamenti, che saranno a loro volta ingenui e infantili.
C’è chi esorta a riprendere la vita di sempre, a far finta di nulla. Il comportamento di chi dice “io non modifico le mie abitudini, non ho affatto paura” è irrazionale quanto il panico, e rischia di mettere in grave pericolo chi va protetto.
Se una comunità ha un senso è perché si preoccupa di proteggere le categorie più fragili e vulnerabili. È come una mutua assicurazione: chi sta meglio dovrebbe occuparsi di chi sta peggio, perché poi quando sarà egli stesso in quelle condizioni, altri si occuperanno di lui. Invece abbiamo assistito a dichiarazioni indegne: “non ci si deve preoccupare troppo perché i decessi riguardano persone molto anziane o gravemente malate”. Un briciolo di civiltà avrebbe richiesto qualcosa del tipo: <<in questo momento in cui un virus, nuovo per tutti, soprattutto per i nostri sistemi immunitari, colpisce in particolar modo anziani e persone gravemente malate e rischia di diffondersi troppo velocemente mettendo a rischio le strutture sanitarie, siamo chiamati – tutti insieme – a mettere in atto comportamenti responsabili, proprio per proteggere quanto più possibile chi di noi si trovi in quelle condizioni>>.
Un simile modo di comunicare forse avrebbe permesso di pensare a questa situazione in modo diverso: il pensiero grezzo e immediato del tipo virus=pericoloignoto avrebbe potuto trasformarsi pian piano in un pensiero più complesso, in cui alla reazione immediata può sostituirsi la riflessione e la messa in atto di un comportamento attivo e volto ad essere d’aiuto a chi è più minacciato. È questa che la linea sottile che divide una reazione impulsiva dettata dalla paura da una reazione più riflessiva, attiva e responsabile. È questo che può fare la differenza tra una mera moltitudine di individui e una comunità.