Sebbene la terapia farmacologica sia lo strumento più studiato e testato per quanto riguarda il trattamento della depressione, da diversi anni si vanno accumulando sull’efficacia della psicoterapia (v. anche: efficacia della psicoterapia). Certamente gran parte delle spiegazioni oggi disponibili relative all’efficacia della psicoterapia fanno ricorso a concetti propri della psicologia ma, dato che il vissuto psichico di questo grave malessere ha una controparte neurobiologica, è naturale che i ricercatori si chiedano come e dove la psicoterapia agisca a livello cerebrale. La possibilità di dare una prima risposta a questo interrogativo viene dalle tecniche di brain imaging, soprattutto dalla tomografia a emissione di positroni (Pet) e dalla Risonanza Magnetica funzionale (fMRI).
Per questo alcuni ricercatori del Rotman Research Institute di Toronto hanno sottoposto a Pet un gruppo di pazienti affetti da depressione maggiore prima e dopo un ciclo di psicoterapia. Come riferiscono sugli «Archives of General Psychiatry», hanno potuto così rilevare che la risposta positiva al trattamento era associata ad alcune significative variazioni nel metabolismo cerebrale.
Ciò che è apparso singolare ai ricercatori canadesi è che le modificazioni evidenziate sono in parte differenti da quelle che si verificano quando il miglioramento della depressione è conseguente a un trattamento di tipo farmacologico. Se si esaminano infatti le immagini Pet del cervello di persone affette da depressione maggiore che hanno tratto giovamento dall’uso di uno dei più diffusi farmaci antidepressivi, la paroxetina, e le si confronta con quelle ottenute relativamente alla psicoterapia, le variazioni si osservano infatti in aree differenti. In particolare, appare evidente un aumento del metabolismo nella corteccia prefrontale e una riduzione di quello dell’ippocampo e di un’altra regione del giro del cingolo.
Entrambe le terapie dimostrano dunque di avere un effetto organico, modulando il funzionamento di alcune regioni del cervello, ma sembrano seguire due strade differenti. I farmaci antidepressivi oggi disponibili modificano l’equilibrio biochimico – e quindi il funzionamento – delle aree più legate ai centri che governano l’emotività e i ritmi circadiani. La psicoterapia invece, agendo sul modo in cui il soggetto interpreta gli stimoli e i comportamenti provenienti dal mondo esterno, fa probabilmente in modo che dalla corteccia partano meno segnali negativi verso il sistema limbico. Si può dire che mentre nel primo caso la terapia procede dalle profondità delle parti più arcaiche del cervello per arrivare a influenzare quelle che elaborano la nostra visione del mondo, nel secondo si fa il cammino inverso.
La scoperta deve essere sottoposta a ulteriori verifiche, ma resta aperta la questione se in futuro diverrà possibile distinguere condizioni patologiche in cui una delle due terapie sia da preferire all’altra o se la differenza evidenziata non riguardi piuttosto due componenti complementari di uno stesso disturbo. In quest’ultimo caso, la scelta migliore resterebbe quella che già oggi è considerata la via d’elezione da gran parte del mondo psichiatrico per i disturbi depressivi più gravi, ossia l’uso integrato di trattamento farmacologico e psicoterapia.