di Luca Mazzotta – Psicoterapeuta – Specialista in Psicoterapia Psicoanalitica
Secondo il pediatra e psicoanalista inglese Winnicott (Winnicott, 1956) il Sé si sviluppa attraverso la percezione di sé nella mente di un’altra persona. Per Winnicott il vero Sé può svilupparsi solo in presenza di un altro “non intrusivo” che non interrompa nel bambino la continuità dell’esperienza di Sé, cioè un caregiver che non invade la mente del bambino sostituendo i propri impulsi a quelli del bambino, limitandone e dirottandone i gesti creativi. Qui la sovrapposizione con il meccanismo di formazione del sé alieno nella teoria di Fonagy è pressoché totale (Fonagy, 2001), così come è altrettanto sovrapponibile il concetto di gioco e di “spazio potenziale” (Winnicott, 1971) nell’analisi, come luogo in cui è possibile “giocare con la realtà” osservando la propria mente, i propri desideri e le proprie fantasie, nelle rappresentazioni mentali dell’analista.
Per Fairbairn la maggiore fonte di resistenza al lavoro psicoanalitico è il tentativo del paziente di mantenere chiuso e separato il proprio mondo interno mentre l’obiettivo principale del terapeuta è proprio quello di mettere in relazione questo sistema chiuso con la realtà esterna (Fairbairn, 1958). È evidente, anche in questo caso, l’analogia con il compito del terapeuta che si occupa della mentalizzazione: egli deve permettere e favorire, utilizzando la relazione di transfert, una integrazione delle modalità di equivalenza psichica (il mondo reale) e del far finta (il sistema tenuto chiuso dal “paziente” di Fairbairn).
Questo processo è accostabile a quello di internalizzazione di una funzione, conseguente ad una efficace ma inevitabilmente non sempre “perfetta” attività di rispecchiamento, cioè al ruolo della frustrazione ottimale e della relativa internalizzazione trasmutante di Kohut: le esperienze di relazione con l’oggetto-Sé si radicano come strutture psichiche interne in grado di svolgere delle funzioni precedentemente svolte dal genitore, e non come semplici “immagini” (Kohut, 1977).
Il concetto di interiorizzazione del sé alieno trova una certa assonanza anche con l’introiezione estrattiva di Bollas:
“una procedura mediante la quale una persona invade la mente di un’altra persona e si appropria di alcuni elementi della sua vita mentale. Ne risulta che la vittima dell’introiezione estrattiva si sentirà deprivata di alcune parti del Sé. Se questo fenomeno avviene durante l’infanzia, la vittima non avrà un’idea precisa del perché certi elementi della vita mentale sembrano non appartenerle” (Bollas, 1987).
Kernberg considera l’introiezione come il primo meccanismo di organizzazione e di crescita dell’apparato psichico cui si aggiunge, in una fase successiva, l’identificazione, che porta all’acquisizione dell’identità dell’Io (Kernberg, 1976). Quando Kernberg afferma che l’introiezione “è la riproduzione e fissazione di un’interazione con l’ambiente attraverso un complesso organizzato di tracce mnestiche, che implicano almeno tre componenti: l’immagine di un oggetto, l’immagine del Sé in interazione con quella dell’oggetto e la coloritura affettiva sia dell’immagine dell’oggetto che dell’immagine del Sé” (Kernberg, 1975), ripercorre la concettualizzazione della formazione del Sé nell’interazione con l’altro attraverso un rispecchiamento empatico (la coloritura affettiva). In relazione all’organizzazione borderline, sempre Kernberg evidenzia uno scivolamento verso il processo primario, cioè verso una modalità primitiva di funzionamento della mente, come conseguenza di un difetto dei processi di integrazione cognitiva. È immediato fare riferimento alla mancata integrazione delle due modalità di pensiero (equivalenza psichica e far finta) che consentono la mentalizzazione, e quindi all’assenza di una funzione mentale in grado di controllare e inibire modalità arcaiche di funzionamento psichico. Kernberg, in merito alla tecnica terapeutica dei casi limite ritiene, proprio come Fonagy, che la terapia debba essere soprattutto un lavoro di consolidamento dell’identità, cui si giunge aiutando il paziente a sviluppare delle immagini di sé e degli altri coerenti e realistiche. Per far questo indica delle linee guida simili a quelle fornite da Bateman e Fonagy: all’interno di un approccio psicoterapeutico espressivo si utilizza il confronto, la chiarificazione e l’interpretazione basata sul qui e ora della relazione senza ricorrere all’interpretazione genetica, poco comprensibile per i pazienti borderline. L’approccio terapeutico è quindi piuttosto differente rispetto a quello indicato da Kohut (secondo il quale l’analista dovrebbe sempre sintonizzarsi sul vissuto ego sintonico del paziente e non evidenziare ad esempio le scissioni mediante una tecnica di confrontazione; ovviamente, nonostante la loro importanza, queste restano indicazioni “generali”, e di volta in volta a seconda del paziente può essere più utile “lavorare o con Kernberg o con Kohut”) o dalla psicoanalisi intersoggettiva (Stolorow, et al., 2004) mentre segue più da vicino le indicazioni fornite da Fonagy: è sempre necessario interpretare al paziente le proprie scissioni (l’assenza di mentalizzazione) soffermandosi su di esse per poi accompagnare il paziente verso una graduale integrazione delle sue rappresentazioni frammentate, univoche e “senza alternative”.
Va infine ricordato che il primo utilizzo del termine di mentalizzazione risale agli autori psicoanalitici francesi, per i quali il pensiero emerge come capacità di “legare” le energie pulsionali le quali, in assenza di mentalizzazione, non potrebbero prendere altra via se non quella dell’acting-out o della somatizzazione
Opere citate
Bollas C. The Shadow of the Object. Psychoanalysis of the Unthought Known. – New York : Columbia University Press, 1987. – Tr. it.: “L’ombra dell’oggetto, psicoanalisi del conosciuto non pensato”. Roma, Borla (1989).
Fairbairn W.R.D. On the nature and aims of psychoanalytic treatment // International Journal of Psycho-Analysis. – 1958. – 39. – p. 374-385.
Fonagy P. Attachment theory and Psychoanalysis. – London : Other Press, 2001. – Tr. it.: “Psicoanalisi e teoria dell’attaccamento”. Milano, Cortina (2002).
Kernberg O. Object Relations Theory and Clinical Psychoanalysis. – New York : Aronson, 1976. – Tr. it.: “Teoria delle relazioni oggettuali e clinica psicoanalitica”. Torino, Bollati Boringhieri (1985).
Kernberg O.F. Borderline Conditions and Pathological Narcissism. – New York : Aronson, 1975. – Trad. it.: Sindromi marginali e narcisismo patologico. Torino: Boringhieri, 1978.
Kohut H. The Restoration of the Self. – New York : International University Press, 1977. – Tt. it.: “La guarigione del Sé”. Torino, Boringhieri (1980).
Lecours S. e Bouchard M.A. Dimensions of mentalization: Outlining levels of psychic transformations // International Journal of Psycho-Analysis. – 1997. – Vol. 78. – p. 855-875.
Luquet P. Le changement dans la mentalization // Revue Francaise de Psychoanalyse. – 1981. – 45. – p. 1023-1028.
Marty P. Mentalization et psychosomatique. – Paris : Laboratoire Delagrange, 1991.
Stolorow R. (et al.) Psicopatologia intersoggettiva / a cura di Casonato M.. – Urbino : Quattroventi, 2004. – Seconda edizione ampliata (2004).
Winnicott D.W. Mirror role of mother and family in child development [Sezione di libro] // Playing and Reality. – London : Tavistock, 1956. – Tr. it.: in “Gioco e realtà”. Roma, Armando (1974).
Winnicott D.W. Playing and Reality. – London : Tavistock Publications, 1971. – Tr. it.: “Gioco e realtà”. Roma, Armando (1974).