Dove cercare? Dalla fenomenologia ai sistemi neurofisiologici
Il posto più ovvio dove cercare l’essenza della depressione è nella fenomenologia clinica della depressione, caratterizzata da un insieme di stati d’animo come scarsa energia, bassa autostima, perdita di motivazione, sentimenti di colpa, perdita di piacere e così via. Cosa significa questo insieme di stati d’animo? Qual è il loro senso? Cosa ci comunica una persona che dice di sentirsi deluso, frustrato, inutile? Che ci dice di aver perso la speranza, la voglia di vivere, l’interesse nelle persone e nel mondo? Perché si sente così?
Dai tempi di Freud sino all’ultima edizione del DSM (Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali) il criterio diagnostico differenziale consiste nell’accertare che questo insieme di stati d’animo non siano giustificati da lutto. In altri termini i segni che caratterizzano la depressione ed il lutto sono molto simili, cioè la depressione ha l’aspetto fenomenologico del lutto. Ed in effetti Freud aveva ribadito che la depressione è simile al cordoglio e può essere vista come una forma patologica di lutto (Freud, 1917).
Non è un caso che sia stato osservato come esperienze precoci di separazione predispongano alla depressione e che molto spesso il primo episodio depressivo sia scatenato da un qualche tipo di perdita sociale.
Alla luce di queste osservazioni, e cioè che i vissuti depressivi sono connessi con la psicologia dell’attaccamento e della separazione, è naturale volgere l’attenzione a quei sistemi cerebrali, tipici dei mammiferi, che si sono evoluti specificamente allo scopo di gestire i comportamenti legati al mantenimento della vicinanza e che producono una specifica sensazione di dolore psichico universalmente nota come angoscia di separazione la quale, se non esita in un ricongiungimento, è tipicamente seguita dalla disperazione.
Uno specifico sistema cerebrale nei mammiferi si è evoluto proprio allo scopo di generare un tipo di sensazioni simili alla depressione: si tratta di un sistema cerebrale sviluppatosi milioni di anni fa dal più generale meccanismo del dispiacere, il cui scopo specifico era probabilmente quello di favorire dei legami tra genitori e prole, tra partner sessuali, tra gruppi sociali. Quando, in seguito ad una separazione, questi legami si rompono, questo sistema cerebrale fa sì che l’individuo sperimenti una sensazione di dispiacere molto particolare e specifica: l’angoscia di separazione o panico. L’importanza biologica di questo tipo di dolore consiste nel fatto che esso motiva l’individuo ad evitare la separazione ed a cercare il ricongiungimento con l’oggetto perduto. E in ogni caso, nel momento in cui questo obiettivo non dovesse essere raggiunto, entrerebbe in gioco un secondo meccanismo in grado di far cessare lo stato di angoscia e di portare l’individuo a rinunciare alla sua ricerca: questa rinuncia non sarebbe altro che la fase di “sconforto”.
Questo sistema è incluso in una specifica rete di strutture cerebrali che ha inizio nel giro anteriore del cingolo, prosegue attraverso vari nuclei talamici, ipotalamici e nuclei basali e termina all’interno del mesencefalo, nei neuroni del grigio periacqueduttale (struttura coinvolta nel sistema del piacere-dispiacere). L’attivazione o inibizione di questo sistema è mediata da recettori oppioidi. Oppioidi agonisti dei recettori “mu” in particolare attivano questo sistema in modo da generare sensazioni di benessere opposte a quelle depressive mentre il blocco o il ritiro di oppioidi “mu” provoca angoscia di separazione.
Il meccanismo del passaggio da una fase acuta di “protesta” ad una cronica di “sconforto” si è probabilmente evoluto allo scopo di evitare di richiamare troppo a lungo l’attenzione dei predatori ed anche di proteggere l’animale separato da un eccessivo stress metabolico; è comunque proprio questa successiva manifestazione di “sconforto” che ricorda molte manifestazioni cliniche della depressione.
Il sistema cerebrale dell’angoscia di separazione è molto sensibile al rilascio di prolattina e ossitocina, tipico del parto, e facilita l’accudimento materno della prole: questo è uno dei motivi per cui il meccanismo che media tra attaccamento e separazione è più sensibile nelle donne, che hanno infatti circa il doppio delle probabilità di soffrire di depressione.
Inoltre è noto da molto tempo che gli oppioidi hanno potentissime proprietà antidepressive e, se non fosse per l’elevatissimo rischio di sviluppare dipendenza, sarebbero stati la prima scelta tra i farmaci antidepressivi. Tra le altre, ci sono buone ragioni per ritenere che le endorfine, sostanze prodotte dal cervello con proprietà simili alla morfina e all’oppio e responsabili del benessere legato alle sensazioni di sicurezza, generino a loro volta dipendenza: in altri termini i legami affettivi sono una vera e propria forma di dipendenza!
Ovviamente il sistema appena descritto, sebbene giochi un ruolo chiave, non è l’unico coinvolto nelle manifestazioni depressive: ad esempio lo “spegnimento” del sistema dopaminergico di ricerca facilitato dalla dinorfina (un oppioide endogeno) forma un ulteriore meccanismo indipendente in molti casi di manifestazioni depressive.
Sembra comunque che il dolore per le perdite affettive sia il prezzo che i mammiferi sono costretti a pagare in cambio dei vantaggi evolutivi garantiti dal sistema di attaccamento. Questo è un esempio di un principio più generale: gli affetti, sia positivi che negativi, si sono evoluti poiché giocano un ruolo cruciale nell’aumentare le probabilità di sopravvivenza della specie.
Continua: meccanismi psicodinamici ed evolutivi.
Parte prima: la prospettiva di Mark Solms e la neuro-psicoanalisi